Michele Sindona

I personaggi che stiamo incontrando viaggiano senza freni tra speculazioni e lucro, sono banchieri finanzieri e faccendieri, tra di loro si chiamano lo squalo il venerabile il Chick il banchiere di Dio.

Nel 1908, un terremoto e un maremoto catastrofico, seguiti da incendi colossali, distruggono quasi interamente la città di Messina. Più di metà della popolazione perse la vita. La città siciliana affacciata sullo stretto, che era stata fondata dai Greci nel 750 avanti Cristo e che nel Medioevo aveva condiviso con Palermo il ruolo di capitale, era diventata un cumulo di macerie fumanti su una terra sconquassata. La ricostruzione di Messina iniziò nel 1912 e, quando il giovane figlio di un fioraio specializzato nella creazione di corone mortuarie, e col vizio del gioco, raggiunse Messina per studiarvi all’università nel 1938, la città si presentava ormai come un agglomerato moderno e ordinato di vie ampie e perfettamente rettilinee. Questo giovane aveva studiato con profitto dai Gesuiti nel suo paese natale Patti, un borgo della provincia di Messina arroccato in faccia al Tirreno sopra uno sperone di roccia. Michele Sindona, questo è il nome del giovane, per mantenersi agli studi aveva iniziato a lavorare già a 14 anni come dattilografo e aiuto contabile. Michele arriva dunque a Messina per frequentare, grazie ad una borsa di studio, la prestigiosa università che vi era stata fondata nel 1548 da Ignazio di Loyola, il creatore della Compagnia di Gesù.

Il diciottenne, povero in canna, si impiega all’ufficio imposte, impartisce lezioni private di fisica e filosofia e frequenta, al contempo, la facoltà di giurisprudenza dove quattro anni dopo, nel 1942, ottiene la laurea con una tesi sul principe di Niccolò Machiavelli. Come dimostrano le vicende che poi circonderanno la vita di Sindona, la massima di Machiavelli il fine giustifica i mezzi, verrà fatta propria e interpretata costantemente dal futuro banchiere siciliano. Subito dopo la laurea Sindona torna a Patti dove apre uno studio legale e nel frattempo si mette a commerciare agrumi, nel ‘44 si sposa con una ragazza di Tindari e appena nasce la prima figlia si trasferisce a Messina che un anno prima è stata di nuovo gravemente danneggiata da un interminabile bombardamento alleato. Siamo ormai al ‘46, Sindona superare l’esame che gli permette di esercitare l’avvocatura in tutta Italia e si trasferisce a Milano, ospite di un cugino che gli paga l’affitto con consulenze fiscali. Sei mesi più tardi fa arrivare anche i familiari, la madre, la nonna e il fratello, oltre che la moglie e la bambina.

Pian piano si sparge la voce che a Milano c’è un mago capace di far sparire i soldi all’estero e Sindona diventa ricercatissimo. Apre uno studio di consulenze, gioca in borsa e in fortuna, investe in speculazioni e raddoppia il capitale. Diventa miliardario che non ha ancora 30 anni.

Nei decenni successivi Sindona costruisce partecipazioni per un totale di 450 milioni di dollari sparsi in un labirinto di banche e industrie, nel 1961 grazie alla Fasco, la holding lussemburghese di sua proprietà, compra la quota maggioritaria della sua prima banca, la banca privata Finanziaria, un’altra holding dentro la quale c’è Uranya, azienda di elettronica che ha nel Consiglio di Amministrazione,  anche l’Istituto per le Opere di religione, lo IOR, la banca Vaticana onnipresente in quel periodo in tutte le storiacce legate ai quattrini.

Michele Sindona a modo suo credeva in Dio, nella Santa Romana Chiesa e nel ruolo Social- religioso di calmieratrice di movimenti rivoluzionari e sovversivi della Santa Sede. Credeva in particolare, nel potere finanziario e candeggiante della chiesa e dunque dispose a farci insieme degli affari che, da loschi, diventavano magicamente puliti. Aveva conosciuto, quando era arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI e l’aveva aiutato a trovare fondi e permessi per la costruzione di una casa di riposo. Insieme al colto Montini, parlava di filosofia e classici della letteratura latina e paleocristiana. Tramite una cugina aveva anche conosciuto Massimo Spada, amministratore delegato dello IOR. Il Vaticano diventa, dunque, il suo primo formidabile alleato. In un misto di ingenuità e spregiudicatezza, Monsignori di Curia provinciali e pasticcioni, incapaci di far quadrare i bilanci e vangelo, si affidano con sollievo a questo finanziere riservato che si proclama fedele amico della chiesa e della Democrazia Cristiana (DC) e acerrimo nemico dei comunisti. Insomma, dopo varie compravendite di titoli, attorno al ‘68 troviamo IOR e Sindona soci di avventure bancarie, evasioni fiscali e pulizia di denaro sporco. Nel frattempo nel ‘69 Paolo VI aveva deciso di vendere parte del patrimonio immobiliare della chiesa e naturalmente, l’aveva ceduto al provvidenziale Sindona che non si dimenticava mai di smistare generose mazzette finanziarie alla DC di Piccoli, Fanfani e Andreotti, nel 1974 ci fu addirittura una mazzetta di 2 miliardi di lire.

Nel 1971, nel frattempo, alla presidenza dello IOR era arrivato un vescovo americano, il poi famigerato Paul Marcinkus, che torna sempre nelle storie intricate (vedi ad esempio nella ancora misteriosa vicenda di Emanuela Orlandi) e lo stesso anno, nel 1971, alla guida del Banco Ambrosiano è nominato Roberto Calvi. Come dire, che la festa cominci.

Michele Sindona è molto ambizioso, vuole schiacciare i bottoni del potere e poiché è molto intelligente sa che il potere nasconde i suoi bottoni più importanti non nelle stanze accessibili a quasi tutti, ma nei sottoscala o nei bassifondi, dove si muovono le correnti profonde del denaro degli affari inconfessabili e navigando in quelle acque, incontra squali e pesci cane come lui. Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo descriveva così Michele Sindona sul Corriere della Seraera un ragazzo appartato e taciturno, non timido, presumibilmente di quelli che in Sicilia si chiamano Masticaferro che disdegnano cioè amicizie compagnonerie che denunciano nel pallore del volto ambizione e determinazione”.

Michele Sindona
Michele Sindona

Intervistato, Giulio Andreotti dice “non sono mai stato un sindoniano ma non ho mai nemmeno creduto che lui fosse il diavolo in persona”. Se a dirlo è uno che nella top ten degli appellativi sfoggia il titolo di Belzebù c’è da credergli a meno di non usare immaginarli nello stesso girone infernale con tanto di tessera d’iscrizione con timbro e firma del venerabile. Già, perchè Sindona aveva la tessera numero 1612 e resta da capire se sia diventato l’uomo più potente della finanza italiana prima o dopo aver conosciuto Licio Gelli ed essere entrato nella loggia P2. Il legame che lega Michele Sindona e il venerabile Gelli è di quelli che non si possono tradire, l’uno è necessario alla sopravvivenza dell’altro perchè nelle banche di Sindona passano soldi della P2, dello IOR e di cosa nostra e Sindona è lo strumento che permette a Gelli di entrare nella finanza e nelle istituzioni. Gelli da parte sua, permette a Sindona di ottenere quella protezione di cui ha bisogno da parte delle forze dell’ordine e dei servizi segreti i cui vertici hanno tutti una tessera propaganda in tasca.

Joe Adonis (Giuseppe Antonio Doto) è un mafioso italo americano del clan della famiglia Genovese di cui fa parte anche Lucky Luciano, uno dei nostri italiani brava gente d’esportazione, nel 1952 Adonis porta Sindona a New York per presentarlo a mafiosi del calibro di Daniel Anthony Porco e il suo compito è quello di lavare i soldi di cosa nostra americana proveniente da droga, gioco d’azzardo e contrabbando. Cinque anni dopo, Sindona si è dimostrato talmente efficiente ed affidabile che nel 1957 all’hotel delle Palme di Palermo, in uno dei più grandi summit della mafia, viene presentato a Lucky Luciano in persona. Nel 1967 però cominciano i problemi, l’interpol statunitense inizia ad indagare su Sindona e i suoi amici e gli amici degli amici e lo segnala al governo italiano che però non trova alcuna irregolarità nelle sue attività, non ancora. Il vicepresidente del centro per la cultura d’impresa Antonio Calabrò avrà modo di dichiarare a  La Repubblicase poche persone e pochissime istituzioni non avessero fermato Sindona, la Borsa di Milano, oggi, avrebbe un azionista di riferimento, la mafia.

Nel 1977 Sindona è ormai ad un passo dal crack della sua banca privata Finanziaria eppure non gli mancano i sostenitori, Andreotti, la P2 e la massoneria americana ad esempio. Il suo piano di salvataggio è quello di scaricare i 250 miliardi di lire di debito accumulato sui contribuenti, un classico ancora oggi utilizzato dai gestori delle banche, ma c’era un ostacolo, un avvocato di Milano, Giorgio Ambrosoli.

Nato in una famiglia borghese conservatrice, addirittura monarchico, Ambrosoli era specializzato in diritto fallimentare. Nel 1974, a soli 41 anni viene dunque incaricato da Guido Carli, Governatore della Banca d’Italia, di analizzare, in qualità di Commissario Liquidatore, la situazione economica dell’Istituto di credito, gli intrecci tra finanza, politica, mafia e massoneria. In pratica gli viene affidata la banca, mentre il giudice istruttore Ovilio Urbisci la manda in liquidazione coatta ed emette un mandato d’arresto per Sindona accusato di falsità in scritture contabili, false comunicazioni e illegali ripartizione degli utili.

Nel libro Qualunque cosa succeda, il figlio di Ambrosoli, Umberto, ricostruisce la storia con dettagli e notazioni a dir poco angoscianti. Più Ambrosoli analizzava le carte, più si rendeva conto delle connivenze dei tradimenti compiuti anche da pubblici ufficiali, delle gravissime irregolarità commesse e contemporaneamente cominciò a subire tentativi di corruzione e pressioni per nascondere la verità. Minacce di morte senza che lo Stato gli fornisse mai alcuna forma di protezione ma Ambrosoli era proprio l’eroe Borghese dell’omonimo libro di Corrado Stajano e del film di Michele Placido (Miniserie TV RaiPlay parte uno e parte due).

Pochi mesi dopo l’inizio della sua attività investigativa scrisse una lunga lettera alla moglie Anna in cui dichiarava le sue preoccupazioni confermando però che non si sarebbe piegato al sistema che era stato chiamato a contrastare. Scrive nella lettera è in dubbio che in ogni caso pagherò molto a  caro prezzo l’incarico, lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese e aggiunge qualunque cosa succeda, comunque, tu sai cosa devi fare e sono certo che saprai fare benissimo dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto.

Nel settembre del 1976 Sindona viene arrestato a New York ma subito scarcerato dopo il pagamento di una cauzione di mezzo miliardo di lire. Nel 1980 lo condannano a venticinque anni di reclusione con oltre 60 capi d’accusa e 207.000 dollari di multa per il crack della Franklin Bank, associazione per delinquere, frode, falsa testimonianza e uso fraudolento dei mezzi di comunicazione federali. Le carceri americane si aprono e immaginarsi il malefico magrolino ultrasessantenne siciliano, rinchiuso tra i bestiali galeotti delle violente periferie americane fa una certa impressione. Nel 1984 l’Italia ne chiede l’estradizione per giudicarlo per l’omicidio Ambrosoli e la ottiene nonostante il tentativo di evitarla da parte di Licio Gelli e di altri influenti membri della P2.

Per gli americani Ambrosoli è un uomo onesto e probo eppure dall’altra parte dell’oceano, in Italia, Giulio Andreotti, per sette volte Presidente del Consiglio, diciannove volte Ministro e dal 1945 al 2013 sempre presente nelle assemblee legislative italiane ne parla così: “non voglio sostituirmi alla Polizia ne ai Giudici, certo [Ambrosoli] era una persona che, in termini romaneschi, direi che se le andava cercando“.

I problemi per Ambrosoli cominciano proprio quando arriva al banco Ambrosiano, i faccendieri che lo vogliono morto sono tanti, il primo della lista è proprio Michele Sindona.

A maggio, due mesi prima dell’agguato, Ambrosoli trova nel parcheggio della banca, proprio davanti alla sua alfetta blu, una pistola rubata dalla cassaforte del suo ufficio. Ambrosoli va avanti, in contatto costante con i magistrati che indagano sul crack e protetto dalla sola Banca d’Italia. Prosegue il suo lavoro e non si ferma neppure quando la voce anonima dall’accento siculo che lui ormai chiama amichevolmente il picciotto per le continue chiamate gli urla lei è degno soltanto di morire come un cornuto e un bastardo

E’ l’undici luglio 1979 e quella sera si disputa un incontro di pugilato, Ambrosoli invita nella sua casa di via Morozzo della Rocca alcuni amici per vedere l’incontro finito il quali li accompagna a casa. Sceso dall’auto si sente chiamare avvocato Ambrosoli al tempo di rispondere ,  William Joseph Aricò, noto negli ambienti della comunità italo americana di New York come Bill lo sterminatore dirà solo scusi avvocato e gli esplode contro quattro colpi di 357 Magnum. Erano in tre fa capire l’avvocato ai primi soccorritori, alcuni testimoni oculari dicono che i killer sono fuggiti su una Fiat 127 rossa. William Aricò era sbarcato alla Malpensa la mattina dell’otto luglio ed era ripartito il 12 luglio, sempre dalla Malpensa per New York, secondo i magistrati milanesi non c’è praticamente dubbio quindi che sia stato Aricò ad uccidere l’avvocato Ambrosoli e a partecipare alle intimidazioni a Cuccia. Bill lo sterminatore però, muore in circostanze oscure il 19 febbraio 1984, precipita infatti da una finestra mentre cerca di evadere dal Metropolitan Correctional Center di Manhattan insieme con Miguel Sepulveda, un trafficante colombiano di cocaina.

Giunto in Italia a Sindona viene combinata una prima condanna per bancarotta e frode, 12 anni più un consistente risarcimento agli azionisti della banca e il 18 marzo 1986 viene condannato all’ergastolo come mandante dell’assassinio di Giorgio Ambrosoli.

Due giorni dopo la condanna, Sindona beve un caffè al cianuro nella sua cella del carcere di massima sicurezza di Voghera, muore e la sua morte, dopo un’inchiesta, viene archiviata come suicidio in quanto il cianuro ha un odore così forte che avrebbe dovuto insospettirlo, tanto più che si sentiva in pericolo di vita tanta era la gente che temeva le sue rivelazioni e poi chi ordina la morte di qualcun altro si aspetta ovviamente di essere trattato con la stessa moneta. Sul suo avvelenamento una delle ipotesi ritenute più probabile è che Sindona stesso abbia provato ad auto avvelenarsi per ottenere l’estradizione negli Stati Uniti e che la dose utilizzata per farlo sia stata eccessiva. A quel punto della sua vita andata in bancarotta, carcere per carcere, quello americano gli doveva sembrare più sicuro quanto ad incolumità, avrebbe avuto tanto tempo per leggere e meno insidie.

A caccia perenne di paradisi fiscali Michele Sindona chiude la sua parabola con una pillola di cianuro che incapsulerà per sempre tutti i misteri dei bassifondi politici e finanziari che per anni da protagonista ha frequentato.

La sua tomba si trova al cimitero monumentale di Milano e non è una delle tombe più visitate.

 

Tratto dalla trasmissione radiofonica RAI© Mangiafuoco del 20/06/2018

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