Il Clan dei Marsigliesi – 1^ parte –

Marsiglia è sempre stata una città importante anche per la sua tradizione criminale, la sua posizione geografica e il suo porto nel centro del Mediterraneo, l’hanno resa un luogo strategico per il narcotraffico internazionale. Non è un caso che fino alla metà degli anni 80 i marsigliesi hanno raffinato l’eroina proveniente dall’Asia e dal Sudamerica per poi smerciarla in Europa e anche negli Stati Uniti in quell’enorme traffico che negli anni 40 fu chiamato French Connection e gli stessi marsigliesi hanno per anni insegnato a lavorare la morfina base ai mafiosi siciliani di Cosa Nostra. E’ proprio da Marsiglia che giunsero in Italia, nei primi anni 60, anche alcuni criminali che si comportavano come gangster americani che presto si inserirono nel sottobosco criminale del nostro paese a suon di rapine e di sequestri, prima a Milano poi a Roma, i loro nomi Albert Bergamelli, Jacques Berenguer,  Maffeo “Lino” Bellicini furono per anni, tra quelli più ricercati e più imprendibili d’Italia.

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I marsigliesi furono un’associazione criminale transnazionale che contribuì a cambiare il fenomeno criminale in Italia, il loro alto tenore di vita e l’aspetto elegante nascondevano sfrontatezza e ferocia con cui perpetrarono i loro delitti, celebri i loro sequestri di persona, i rapporti con criminali milanesi come Francis Turatello o boss romani come Danilo Abbruciati. Si scontrarono però con i gruppi mafiosi allora emergenti in Italia come la Nuova Camorra Organizzata (NCO) di Raffaele Cutolo che arrivò a spostare le rotte del contrabbando di sigarette dal Tirreno all’Adriatico per sottrarle al controllo dei marsigliesi. Da allora, la loro parabola fu intensa e veloce e già alla fine degli anni 70 gli esponenti più importanti del clan furono arrestati. Resta però l’ombra di misteri non ancora completamente risolti sugli appoggi di cui il clan godette da parte di alcuni apparati dello Stato e su dove finirono realmente i soldi dei loro sequestri.

A Roma, negli anni 70, rabbia e paura scorrevano lente ed eterne. Chi aveva vent’anni non può dimenticare l’aria che si respirava, il clima di violenza e inquietudine, lo scontro quotidiano tra il bene e il male. Adesso le indagini si fanno al computer, tutto può essere tracciato e intercettato e a commettere certi reati non ci pensa più nessuno, ma all’epoca, per inseguire i criminali bisognava conoscere i segreti delle città e ascoltarne i respiri. Quello a cui stiamo andando incontro non sono ne fantasie di uno scrittore ne frutto della immaginazione, sono accadute davvero a Roma 40 anni fa.

Ci sono storie che cominciano dall’inizio, altre dalla fine, questa comincia dall’ attimo in cui è cambiato tutto. Sono anni di violenza politica e lotta armata ma c’è anche chi fa il bandito alla vecchia maniera, una rapina dal sapore romantico, il colpo della vita. Sono le 18.00 del 22 febbraio 1975, a Roma, in via dei Caprettari, vicino il Senato, c’è un ufficio postale.

Marsigliesi Fuori dall’ufficio un bandito aspetta al volante di un’auto pronta a ripartire, i suoi complici entrano con le armi spianate, nell’ufficio sono di servizio gli agenti di pubblica sicurezza Rito Spagnuolo e Giuseppe Marchisella, (che è in bagno) mentre i rapinatori a volto scoperto affrontano il suo collega. Appena uscito dal bagno, Marchisella tenta una reazione, i banditi sparano colpendolo a morte con una raffica di mitra, arraffano quello che possono e scappano. Il bottino fu di 400 mila lire, somma ridicola rispetto all’impegno di uomini e mezzi perchè nelle intenzioni dei criminali, la rapina avrebbe dovuto fruttare un miliardo di lire. Giuseppe Marchisella muore il giorno successivo in ospedale, aveva 22 anni. Cinque giorni dopo la sanguinosa rapina, Clara Calabresi, la fidanzata dell’agente ucciso, sconvolta dal dolore, si getta dal quarto piano della sua abitazione a Barletta, resta in coma dieci giorni prima di morire. La coppia avrebbe dovuto sposarsi proprio quel mese. La terza tragedia fu che il malvivente che aveva procurato l’automobile per la rapina, Claudio “topolino” Tigani, voleva una parte più grossa del bottino: finì ucciso e bruciato in macchina.

A piazza dei Caprettari c’è ancora l’ufficio postale ma nessuno si ricorda dell’agente Giuseppe Marchisella e della sua fidanzata, Clara Calabresi, vittime innocenti che vengono subito inghiottite dall’oblio, i nomi dei rapinatori invece finiscono sui giornali, una banda in cui spiccano tre criminali dall’accento francese e dalla faccia da schiaffi li chiamavano la “Banda delle tre B” dalle iniziali dei loro capi: Bellini, Bergamelli e Berenguer.

La rapina di piazza dei Caprettari fu uno spartiacque per la criminalità romana, il baricentro di una storia dai contorni misteriosi cominciata tanti anni prima e 900 km più lontano da Roma, a Marsiglia, nella Costa Azzurra. Marsiglia è sempre stato un approdo sicuro per i traffici di droga, un porto franco di commerci di ogni genere, il nucleo di una tradizione criminale lunga decenni che da quelle parti chiamano il Milieu.

La French Connection, il valzer della droga proveniente dalla Asia che veniva raffinata a Marsiglia per essere smerciata in tutto il mondo, per tanti anni l’Italia è stata a guardare. Per non intralciare i traffici dei marsigliesi, Raffaele Cutolo cambiò le rotte del contrabbando di sigarette deviando le sue barche verso l’Adriatico e i mafiosi siciliani, impararono a Marsiglia a raffinare la droga, quelli che poi hanno assunto il monopolio del traffico di eroina dalla metà degli anni 70 in poi.

Ma c’era un uomo che aveva capito tutto, il Giudice istruttore al TGI (Tribunale di Grande Istanza) di Marsiglia Pierre Michel, che aveva collaborato con Giovanni Falcone mettendo le mani sulla filiera della French Connection. Pare che avesse sviluppato delle indagini che provavano l’alleanza tra la criminalità organizzata, a Marsiglia, a tre ambienti della società marsigliese: l’imprenditoria, la finanza e la politica. Lo hanno ucciso per questo il 21 ottobre 1981.

Alle origini di questa storia, Marsiglia era ancora la capitale della droga, il nido di una malavita cui strizzava l’occhio perfino il cinema, una terra di frontiera, le varie gang (la mala corsa, la mafia locale, il sindacalismo corrotto, elementi di destra venuti dal nord Africa tornati dall’Algeria e la malavita) erano scatenate.

Nei primi anni 60 ai movimenti indipendentisti algerini si contrappose anche l’organizzazione dell’Armée Secrète, l’OAS, un’organizzazione paramilitare clandestina francese che annoverava tra le sue fila anche criminali comuni. In pochi anni l’OAS uccise più di 2000 persone.

In quella polveriera che era la Francia degli anni 50 sono cresciuti i protagonisti di questa storia ma non era da tutti diventare boss del Milieu così a metà degli anni sessanta la “Banda delle tre B” approdò in Italia. Non erano ancora il Clan dei Marsigliesi ma un gruppo di banditi, vagabondi, scaltri e senza paura, li accolse prima Torino, poi la Milano del boom economico.

Il 15 aprile 1964 era un giorno qualunque a Milano ma in un attimo diventò come la Chicago di Al Capone: otto individui armati fanno irruzione in una gioielleria utilizzando metodi gangsteristici che fino a quel momento si erano visti soltanto al cinema e portarono via 200 milioni di lire (che allora era una cifra stratosferica). La rapina di via Monte Napoleone fu uno sfregio nel salotto buono della città, a due passi dalla questura, il primo vagito dei Marsigliesi in un periodo in cui Milano era la culla del banditismo italiano. La polizia individuò i responsabili in pochi giorni e tra i nomi spunto  quello di Albert Bergamelli figlio di un muratore italiano emigrato in Francia alle sue spalle una lunga storia criminale cominciata col controllo della prostituzione, un fratello ucciso per vendetta e altri colpi pronti come una rapina a via Veneto. Bergamelli venne arrestato a Torino, aveva Marsiglia dietro le spalle e Roma nel destino. Quando lo vide al processo Dino Buzzati lo descrisse così, “smilzo, simpatico, che non si supporrebbe mai pericoloso, il suo sorriso era insieme beffardo e bonario come fosse matematicamente sicuro di se e avesse nella manica non uno ma tutti e quattro gli assi”.

La Stampa chiamò i boss di via Monte Napoleone i sette uomini d’oro ricordando la rapina di via Osoppo di sei anni prima. Con Bergamelli c’era suo fratello Guido e Joe Le Maire, alias Giuseppe Rossi soprannominato il sindaco di Marsiglia, il cervello dell’operazione. I legami dei banditi con l’OAS portarono ad ipotizzare che la rapina servisse ad alimentare un clima di paura in vista di progetti eversivi anche perché inizialmente fu recuperato soltanto un decimo del bottino.

Bergamelli fu condannato a 8 anni e sei mesi e nel carcere di Alessandria riceverà centinaia di lettere d’amore tra cui quelle di Felicia Cuozzo, la donna da cui avrebbe avuto una figlia. Nel 1967 lo mandarono in soggiorno obbligato in un paese del modenese ed evadere per lui sarà un gioco da ragazzi.

Albert Bergamelli, Jacques BerenguerMaffeo “Lino” Bellicini, tutti e tre con sulle spalle vecchie condanne per furti e rapine ma senza alcuna voglia di nascondersi, tutti e tre intenzionati a conquistare la piazza italiana importando, in una città in cui la criminalità era stata fino a quel momento sonnolenta, metodi gangsteristici di nuova modernità.

Maffeo Bellicini era originario di Brescia ma era cresciuto all’ombra dei boss della Costa Azzurra occupandosi di droga, azzardo e prostituzione. Jacques Berenguer era ricercato dalle polizie di mezza Europa per due omicidi, uno dei quali compiuto a Roma.

L’avvento dei Marsigliesi permise alla malavita romana di fare un salto di qualità e chi provava a ribellarsi faceva una brutta fine. Nessuno capì il loro meccanismo criminale per cui avevamo questa nuova criminalità che non rispettava più le regole, che andava all’assalto della ricchezza con metodi assolutamente nuovi. Teniamo comunque conto che Roma non era una città vergine dal punto di vista criminale, la cocaina ad esempio che anche prima dell’avvento dei Marsigliesi, scorreva a fiumi. Attraverso il traffico di droga, le rapine e le estorsioni, la Banda delle tre B diventò l’anello di congiunzione tra i delinquenti di strada e le gang sud Americane già presenti in città e la malavita romana cambiò sotto i nostri occhi. La criminalità romana era una criminalità di bassa lega, molto marginale, periferica, non era organizzata e non conosceva quel modo di vita che viene importato da Marsiglia, ancora c’era il mito del “saccagno”, del coltello, le questioni si risolvevano a coltellate e il “cagafoco”, la pistola, era considerata con disprezzo. C’era ancora questo retaggio dei bulli di fine secolo, “l’omo dè core” ed erano sostanzialmente divisi in “paranze”, (piccoli gruppi di rapinatori, biscazzieri, strozzini, che sfruttavano la prostituzione, le scommesse clandestine e il contrabbando di sigarette) ma sostanzialmente divisi per quartiere.

Berenguer, Bergamelli e Bellicini portarono a Roma carisma e sfrontatezza e mentre il terrorismo politico metteva in ginocchio il paese,  i Marsigliesi sembravano vivere su un altro pianeta: macchine di lusso, droga, belle donne e champagne. Dicevano “vivere in fretta, morire giovane e avere un bel cadavere”. Vivere assetati di soldi per le strade della Dolce Vita, pirati che giocavano a fare il gentiluomo, il motto era “i soldi rubati non si contano” e spendevano e spandevano, non erano semplicemente qualcosa che doveva essere accumulato ma anche speso. Nel frattempo, al clan dei Marsigliesi si sono ispirati i banditi del Nord Italia come Renato Vallanzasca è più tardi Felice Maniero e anche il sottobosco criminale di Roma fu presto ai loro piedi. Un pò cercano di emularli e un pò gli vanno dietro perché lì ci sono i soldi, l’adrenalina, c’è la bella vita, ci sono le armi facili, tutte cose che, appunto, la malavita romana non aveva neanche concepito. Quando tre giovani della Roma bene rapirono due ragazze seviziandole in una villa del Circeo fino ad uccidere, uno di loro, era il 1975 e le 3B erano talmente popolari che per spaventare le due vittime, Gianni Guido, uno dei tre mostri disse “siamo i Marsigliesi” e Andrea Ghira vi aggiunse “adesso arriva Jacques Berenguer”. Diventano dunque  una sorta di polo di attrazione e gli elementi di maggiore spicco della criminalità locale si iscrivono subito all’esercito dei Marsigliesi concorrendo nelle operazioni che saranno tipiche del clan, dalle rapine sino ai sequestri di persona. Uno dei primi ad essere reclutato dei marsigliesi fu Danilo Abbruciati che già da giovane era un veterano della malavita romana, figlio di pugile e pugile a sua volta, era un uomo ambiguo e feroce che diventò l’elemento di cerniera tra due generazioni. Tutti i grandi criminali di cui parleremo per anni in seguito, hanno vent’anni e quindi sono affascinati da questo mondo, Danilo Abbruciati è uno per tutti. Fino a quel momento non esistevano a Roma criminali della sua caratura. C’erano stati gli scippatori, i rapinatori, gli estorsori ma Abbruciati va oltre, anche per il suo bagaglio malavitoso, per le persone che aveva frequentato e per quelle che conosce in carcere. Oltre ad Abbruciati, c’era anche un altro criminale romano, uno di quelli che venivano dalla strada, Laudavino De Santis detto Lallo lo Zoppo che aveva già partecipato alla rapina di piazza dei Caprettari. Abbruciati e De Santis  imparano moltissimo dai Marsigliesi sul piano dell’organizzazione e anche sul piano del come essere spietati nel portare a termine le azioni. I Marsigliesi però non entrano in contatto solo con la criminalità romana ma anche con quella milanese da cui imparano molto perché i milanesi sono già molto più organizzati dei romani, hanno idee precise anche sul loro futuro.

A Milano comandava Francis Turatello un boss che si diceva fosse figlio naturale del vecchio gangster italo americano Frank Coppola, si occupava di gioco d’azzardo, droga e prostituzione, ma era uno che riusciva anche a guardare lontano. Turatello è assolutamente diverso perché crede nelle alleanze e le vuole mettere in piedi, ha bisogno di allargare il proprio impero e questo lo fa anche quando finisce in carcere, cerca di elevare la propria posizione intrecciando rapporti con vari mondi ed è così che Danilo Abbruciati e Francis Turatello divennero alleati, a pieno titolo, del Clan dei Marsigliesi accompagnando l’ascesa criminale di Bergamelli, Berenguer e Bellicini.

Questo gruppo, composto da 5 capi e da un livello sottostante di persone, porterà gli inquirenti a considerare una organizzazione che avrebbe agito in contesti diversi per diversi sequestri per un totale di una trentina di persone coinvolte. I sequestri di persona erano l’affare del momento per le organizzazioni criminali, a compierli, soprattutto i sardi e i calabresi. Nella sola Roma, dal 1972 al 1977 ce ne furono 249, nel mirino, industriali, imprenditori e le loro famiglie come Gianni Bulgari erede di una dinastia di gioiellieri rapito il 13 marzo 1975 e rimasto due mesi nelle mani dei rapitori.

Durante i due mesi del sequestro la famiglia trattò da sola mentre le voci incontrollate sulla cifra richiesta dai rapitori non aiutavano le indagini. La matrice del sequestro Bulgari non è mai stata chiarita, l’unico legame con i marsigliesi era Tiberio Cason, un pregiudicato coinvolto anche nella rapina di piazza dei Caprettari, ma ad essere condannato fu soltanto un uomo estraneo alla banda anche se, in filigrana, sembra intravedersi un marchio di fabbrica e da quel momento i Marsigliesi capirono che con i sequestri si rischiava molto meno. Avevano capito che a Roma c’era una quantità di persone con una disponibilità economica notevole e decisero di impiantare una vera e propria industria del sequestro. Si vedeva che i ricchi avevano paura perché cominciarono a proteggersi con le guardie del corpo e mandando i figli a studiare all’estero, la città era un teatro criminale dove operavano attori di ogni ordine e grado.

Il primo sequestro dei marsigliesi avvenne il 10 giugno 1975, fu quello di Amedeo Ortolani figlio di Umberto Ortolani presidente della Voxon e uomo ombra della P2 di Licio Gelli (ma questo ancora non si sapeva) con importanti agganci politici e legato anche al Vaticano. C’era quasi sempre un basista, la vittima veniva sorvegliata, c’era una fase di pedinamento poi c’era l’aggressione di un gruppo di fuoco che prelevava la vittima, la portava in un primo nascondiglio e molto spesso l’azione del primo gruppo di fuoco finiva lì. Successivamente l’ostaggio viene trasferito in un altro nascondiglio e la trattativa veniva gestita dai veri sequestratori, quelli che hanno ideato il piano iniziale, dopodiché c’era un lungo periodo di silenzio e poi la prima telefonata. Si richiedeva una cifra assurda e a questo punto subentra l’emissario della famiglia che all’inizio era un parente e successivamente un avvocato. Si richiedeva una prova dell’esistenza in vita dell’ostaggio, veniva mandata quasi sempre una foto con il giornale, poi c’era la consegna del denaro, in genere a rate, in tre tranche. Il sequestro durò 10 giorni finché Amedeo Ortolani non venne liberato dopo un riscatto di un miliardo di lire il 20 giugno 1975. A versare il bottino, per riciclare i soldi in una banca Svizzera, fu direttamente Maffeo Bellicini con le sua compagna. [continua]

 

 

Fonte: Diario Civile © RAI – Il clan dei Marsigliesi

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